martedì 5 settembre 2017
The Pirate Bay: Ospitare semplicemente contenuti sul proprio sito web costituisce violazione del diritto d'autore
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Sentenza
Corte di Giustizia Europea - Seconda Sezione - 14 Giugno 2017
1 La
domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione, da un lato,
dell’articolo 3, paragrafo 1, e dell’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva
2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001,
sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti
connessi nella società dell’informazione (GU 2001, L 167, pag. 10),
e, dall’altro, dell’articolo 11 della direttiva 2004/48/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei diritti di
proprietà intellettuale (GU 2004, L 157, pag. 45, e rettifica GU 2004,
L 195, pag. 16).
2 Tale
domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la Stichting
Brein, una fondazione che protegge gli interessi dei titolari del diritto
d’autore, e la Ziggo BV nonché la XS4ALL Internet BV (in prosieguo: la «XS4ALL»),
fornitori di accesso a Internet, relativamente ad alcune domande presentate
dalla Stichting Brein e dirette a far ingiungere alle due società di bloccare i
nomi di dominio e gli indirizzi IP della piattaforma di condivisione online
«The Pirate Bay» (in prosieguo: la «piattaforma di condivisione online TPB»).
Contesto normativo
3 I
considerando 9, 10, 23 e 27 della direttiva 2001/29 sono così formulati:
«(9) Ogni
armonizzazione del diritto d’autore e dei diritti connessi dovrebbe prendere le
mosse da un alto livello di protezione, dal momento che tali diritti sono
essenziali per la creazione intellettuale.
La loro protezione contribuisce alla
salvaguardia e allo sviluppo della creatività nell’interesse di autori,
interpreti o esecutori, produttori e consumatori, nonché della cultura,
dell’industria e del pubblico in generale. Si è pertanto riconosciuto che la
proprietà intellettuale costituisce parte integrante del diritto di proprietà.
(10) Per
continuare la loro attività creativa e artistica, gli autori e gli interpreti o
esecutori debbono ricevere un adeguato compenso per l’utilizzo delle loro
opere, come pure i produttori per poter finanziare tale creazione.
Gli
investimenti necessari a fabbricare prodotti quali riproduzioni fonografiche,
pellicole o prodotti multimediali e servizi quali i servizi su richiesta
(“on-demand”) sono considerevoli. È necessaria un’adeguata protezione giuridica
dei diritti di proprietà intellettuale per garantire la disponibilità di tale
compenso e consentire un soddisfacente rendimento degli investimenti.
(…)
(23) La
presente direttiva dovrebbe armonizzare ulteriormente il diritto d’autore
applicabile alla comunicazione di opere al pubblico. Tale diritto deve essere
inteso in senso lato in quanto concernente tutte le comunicazioni al pubblico
non presente nel luogo in cui esse hanno origine.
Detto diritto dovrebbe
comprendere qualsiasi trasmissione o ritrasmissione di un’opera al pubblico, su
filo o senza filo, inclusa la radiodiffusione, e non altri atti.
(…)
(27) La
mera fornitura di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare
una comunicazione non costituisce un atto di comunicazione ai sensi della
presente direttiva».
4 L’articolo
3 di tale direttiva, intitolato «Diritto di comunicazione di opere al pubblico,
compreso il diritto di mettere a disposizione del pubblico altri materiali
protetti», al suo paragrafo 1 così dispone:
«Gli Stati membri riconoscono
agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi
comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la
messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno
possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente».
5 L’articolo
8 della stessa direttiva, intitolato «Sanzioni e mezzi di ricorso», al
paragrafo 3 prevede quanto segue:
«Gli Stati membri si
assicurano che i titolari dei diritti possano chiedere un provvedimento
inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da
terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi».
6 Il
considerando 23 della direttiva 2004/48 è così formulato:
«Fatti salvi eventuali altre
misure, procedure e mezzi di ricorso disponibili, i titolari dei diritti
dovrebbero avere la possibilità di richiedere un provvedimento inibitorio
contro un intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare il
diritto di proprietà industriale del titolare.
Le condizioni e modalità
relative a tale provvedimento inibitorio dovrebbero essere stabilite dal
diritto nazionale degli Stati membri.
Per quanto riguarda le violazioni del
diritto d’autore e dei diritti connessi, la direttiva 2001/29/CE prevede già
un ampio livello di armonizzazione.
Pertanto l’articolo 8, paragrafo 3, della
direttiva 2001/29/CE non dovrebbe essere pregiudicato dalla presente
direttiva».
7 Ai
sensi dell’articolo 11 della direttiva 2004/48, intitolato «Ingiunzioni»:
«Gli Stati membri assicurano
che, in presenza di una decisione giudiziaria che ha accertato una violazione
di un diritto di proprietà intellettuale, le autorità giudiziarie possano
emettere nei confronti dell’autore della violazione un’ingiunzione diretta a
vietare il proseguimento della violazione. Se previsto dalla legislazione nazionale,
il mancato rispetto di un’ingiunzione è oggetto, ove opportuno, del pagamento
di una penale suscettibile di essere reiterata, al fine di assicurarne
l’esecuzione.
Gli Stati membri assicurano che i titolari possano chiedere un
provvedimento ingiuntivo nei confronti di intermediari i cui servizi sono
utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale, senza
pregiudizio dell’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29/CE».
Procedimento principale
e questioni pregiudiziali
8 La
Stichting Brein è una fondazione dei Paesi Bassi che protegge gli interessi dei
titolari del diritto d’autore.
9 La
Ziggo e la XS4ALL sono fornitori di accesso ad Internet. Una parte rilevante
dei loro abbonati utilizza la piattaforma di condivisione online TPB, un indice
BitTorrent. BitTorrent è un protocollo con il quale gli utenti (denominati
«peers») possono condividere file.
La caratteristica essenziale di BitTorrent
consiste nel fatto che i file da condividere sono divisi in piccole parti, per
cui non è necessario disporre di un server centrale per la memorizzazione dei
medesimi, circostanza che alleggerisce l’onere dei server individuali durante
il processo di condivisione.
Per poter condividere i file, gli utenti devono
prima scaricare un software specifico, denominato «client-BitTorrent», che non
viene fornito dalla piattaforma di condivisione online TPB. Tale
«client-BitTorrent» è un software che consente di creare file torrent.
10 Gli
utenti (denominati «seeders») che intendono mettere un file presente sul loro
computer a disposizione di altri utenti (denominati «leechers») devono creare
un file torrent con l’ausilio del loro client-BitTorrent. I file torrent
rinviano a un server centrale (denominato «tracker») che identifica gli utenti
disponibili a condividere un determinato file torrent nonché il relativo file
multimediale.
Tali file torrent sono caricati (mediante upload) dai seeders su
una piattaforma di condivisione online, quale TPB, che provvede quindi a
indicizzarli, affinché possano essere reperiti dagli utenti della piattaforma
di condivisione online e affinché le opere cui tali file torrent rinviano
possano essere scaricate (mediante download) in diversi frammenti sui computer
degli utenti, con l’ausilio del loro client-BitTorrent.
11 Invece
dei file torrent spesso si utilizzano «magnet links». Tali link identificano il
contenuto di un file torrent utilizzando un’impronta digitale.
12 I
file torrent proposti sulla piattaforma di condivisione online TPB rinviano, in
gran parte, ad opere protette dal diritto d’autore, senza che i titolari del
diritto abbiano dato la loro autorizzazione agli amministratori e agli utenti
di tale piattaforma ad effettuare gli atti di condivisione di cui trattasi.
13 Nell’ambito
del procedimento principale, la Stichting Brein chiede anzitutto che venga
ingiunto alla Ziggo e alla XS4ALL di bloccare i nomi di dominio e gli indirizzi
IP della piattaforma di condivisione online TPB, al fine di evitare che i
servizi di tali fornitori di accesso a Internet possano essere utilizzati per
violare il diritto d’autore e i diritti connessi dei titolari dei diritti di
cui la Stichting Brein protegge gli interessi.
14 Il
giudice di primo grado ha accolto le domande della Stichting Brein. Tuttavia,
esse sono state respinte in appello.
15 Lo
Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi) rileva che, nella
presente causa, è accertato che, mediante la piattaforma di condivisione online
TPB, opere protette sono messe a disposizione del pubblico senza
l’autorizzazione dei titolari dei diritti. È parimenti accertato che, mediante
tale piattaforma, gli abbonati della Ziggo e della XS4ALL rendono accessibili,
senza l’autorizzazione dei titolari dei diritti, opere protette, violando così
il diritto d’autore e i diritti connessi di tali titolari.
16 Lo
Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi) rileva tuttavia che
la giurisprudenza della Corte non consente di rispondere con certezza alla
questione di stabilire se la piattaforma di condivisione online TPB configuri
anche una comunicazione al pubblico delle opere ai sensi dell’articolo 3,
paragrafo 1, della direttiva 2001/29, in particolare:
– creando
e mantenendo operativo un sistema nel quale gli utenti di Internet si collegano
tra loro per poter condividere, per frammenti, opere che si trovano sui loro
computer;
– gestendo
un sito Internet sul quale gli utenti possono mettere online file torrent che
rinviano a frammenti di siffatte opere; e
– indicizzando
e categorizzando su detto sito Internet i file torrent caricati, cosicché i
frammenti delle relative opere possono essere localizzati e gli utenti possono
scaricare (interamente) tali opere sui loro computer.
17 In
tali circostanze, lo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi)
ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti
questioni pregiudiziali:
«1) Se
si configuri una comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo
1, della direttiva [2001/29], ad opera del gestore di un sito Internet ove sul
sito in parola non si trovano opere protette, ma esiste un sistema (…) con il
quale vengono indicizzati e categorizzati per gli utenti metadati relativi ad
opere protette disponibili sui loro computer, consentendo loro in tal modo di
reperire e caricare e scaricare le opere protette.
2) Qualora
la prima questione debba essere risolta negativamente:
se gli articoli 8, paragrafo 3,
della direttiva [2001/29] e 11 della direttiva [2004/48] consentano di emettere
un’ingiunzione nei confronti di un intermediario ai sensi di tali disposizioni,
ove siffatto intermediario faciliti attività illecite di terzi, come indicato
nella prima questione».
Sulle questioni
pregiudiziali
Sulla prima questione
18 Con
la sua prima questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se la
nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1,
della direttiva 2001/29, debba essere interpretata nel senso che comprende, in
circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la messa a
disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di condivisione
che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi ad opere protette e la
fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale piattaforma di
localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una rete tra utenti
(peer-to-peer).
19 Dall’articolo
3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 risulta che gli Stati membri sono
tenuti a provvedere affinché gli autori godano del diritto esclusivo di
autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza
filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle
loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel
momento scelti individualmente.
20 In
forza di tale disposizione, gli autori dispongono pertanto di un diritto di
natura precauzionale che consente loro di frapporsi tra eventuali utenti della
loro opera e la comunicazione al pubblico che detti utenti potrebbero voler
effettuare, e ciò al fine di vietare quest’ultima (sentenza del 26 aprile 2017,
Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 25 e giurisprudenza ivi
citata).
21 Poiché
l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 non precisa la nozione di
«comunicazione al pubblico», occorre determinare il senso e la portata di tale
disposizione in considerazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva
stessa ed in considerazione del contesto in cui la disposizione interpretata si
colloca (sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300,
punto 26 e giurisprudenza ivi citata).
22 In
proposito, si deve rammentare che dai considerando 9 e 10 della direttiva
2001/29 risulta che quest’ultima persegue quale obiettivo principale la
realizzazione di un livello elevato di protezione a favore degli autori,
consentendo ai medesimi di ottenere un adeguato compenso per l’utilizzazione delle
loro opere, in particolare in occasione di una comunicazione al pubblico. Ne
consegue che la nozione di «comunicazione al pubblico» dev’essere intesa in
senso ampio, come espressamente enunciato dal considerando 23 di tale direttiva
(sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto
27 e giurisprudenza ivi citata).
23 La
Corte ha inoltre sottolineato, per quanto riguarda la nozione di «comunicazione
al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29,
che essa comporta una valutazione individualizzata (sentenza del 26 aprile
2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 28 e giurisprudenza ivi
citata).
24 Dall’articolo
3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 si evince che la nozione di
comunicazione al pubblico consta di due elementi cumulativi, vale a dire un
«atto di comunicazione» di un’opera e la comunicazione di quest’ultima a un
«pubblico» (sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15,
EU:C:2017:300, punto 29 e giurisprudenza ivi citata).
25 Per
valutare se un utente effettui un atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, occorre tener conto di
svariati criteri complementari, di natura non autonoma e interdipendenti fra
loro. Occorre pertanto applicarli tanto individualmente quanto nella loro
reciproca interazione, considerando che, nelle diverse situazioni concrete,
possono essere presenti con intensità molto variabile (sentenza del 26 aprile
2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 30 e giurisprudenza ivi
citata).
26 Tra
tali criteri la Corte ha messo in evidenza, in primo luogo, il ruolo
imprescindibile dell’utente e il carattere intenzionale del suo intervento.
Tale utilizzatore realizza infatti un atto di comunicazione quando interviene,
con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento, per dare ai suoi
clienti accesso a un’opera protetta, in particolare quando, in mancanza di
questo intervento, tali clienti non potrebbero, o potrebbero solo con
difficoltà, fruire dell’opera diffusa (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile
2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 31 e giurisprudenza ivi
citata).
27 Essa
ha poi precisato che la nozione di «pubblico» riguarda un numero indeterminato
di destinatari potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto
considerevole (sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15,
EU:C:2017:300, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).
28 La
Corte ha altresì ricordato che, secondo una giurisprudenza costante, un’opera
protetta, per essere qualificata come «comunicazione al pubblico», deve essere
comunicata secondo modalità tecniche specifiche, diverse da quelle fino ad
allora utilizzate o, in mancanza, deve essere rivolta ad un «pubblico nuovo»,
vale a dire a un pubblico che non sia già stato preso in considerazione dai
titolari del diritto d’autore nel momento in cui hanno autorizzato la
comunicazione iniziale della loro opera al pubblico (sentenza del 26 aprile 2017,
Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 33 e giurisprudenza ivi
citata).
29 Infine,
la Corte ha più volte evidenziato che il carattere lucrativo di una
comunicazione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29,
non è privo di rilevanza (sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15,
EU:C:2017:300, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
30 Per
quanto riguarda, in primo luogo, la questione se la messa a disposizione e la
gestione di una piattaforma di condivisione online, come quella di cui al
procedimento principale, configurino un «atto di comunicazione», ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, occorre rilevare, come
emerge dal considerando 23 della direttiva 2001/29, che il diritto d’autore di
comunicazione al pubblico, di cui all’articolo 3, paragrafo 1, comprende
qualsiasi trasmissione o ritrasmissione di un’opera al pubblico non presente
nel luogo in cui la comunicazione ha origine, su filo o senza filo, inclusa la
radiodiffusione.
31 Inoltre,
come risulta dall’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, perché vi
sia un «atto di comunicazione» è sufficiente, in particolare, che l’opera sia
messa a disposizione del pubblico in modo che coloro che compongono tale
pubblico possano avervi accesso, dal luogo e nel momento da loro scelti
individualmente, senza che sia determinante che utilizzino o meno tale
possibilità (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15,
EU:C:2017:300, punto 36 e giurisprudenza ivi citata).
32 La
Corte ha già dichiarato, a detto proposito, che il fatto di mettere a
disposizione su un sito Internet collegamenti cliccabili verso opere protette,
pubblicate senza alcun limite di accesso su un altro sito, offre agli utilizzatori
del primo sito un accesso diretto a tali opere (sentenza del 13 febbraio 2014,
Svensson e a., C‑466/12, EU:C:2014:76, punto 18; v. anche, in tal senso,
ordinanza del 21 ottobre 2014, BestWater International, C‑348/13,
EU:C:2014:2315, punto 15, e sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media, C‑160/15,
EU:C:2016:644, punto 43).
33 La
Corte ha altresì statuito che ciò avviene anche nel caso della vendita di un
lettore multimediale nel quale sono state preinstallate estensioni, disponibili
su Internet, contenenti collegamenti ipertestuali a siti web liberamente
accessibili al pubblico sui quali sono state messe a disposizione del pubblico
opere tutelate dal diritto d’autore senza l’autorizzazione dei titolari di tale
diritto (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15,
EU:C:2017:300, punti 38 e 53).
34 Da
tale giurisprudenza si può pertanto evincere che, in linea di principio, ogni
atto con cui un utente dà, con piena cognizione di causa, accesso ai suoi
clienti ad opere protette può costituire un «atto di comunicazione», ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.
35 Nel
caso di specie occorre constatare anzitutto, come sostanzialmente rilevato
dall’avvocato generale al paragrafo 45 delle conclusioni, che è pacifico che
opere protette dal diritto d’autore sono messe, mediante la piattaforma di
condivisione online TPB, a disposizione degli utenti di tale piattaforma, di
modo che questi possono accedervi dal luogo e nel momento che scelgono
individualmente.
36 Inoltre
è vero che, come sottolineato dal giudice del rinvio, le opere così messe a
disposizione degli utenti della piattaforma di condivisione online TPB sono
state messe online su tale piattaforma non dagli amministratori di
quest’ultima, bensì dai suoi utenti.
Tuttavia detti amministratori, mediante la
messa a disposizione e la gestione di una piattaforma di condivisione online,
come quella di cui al procedimento principale, intervengono con piena cognizione
delle conseguenze del proprio comportamento, al fine di dare accesso alle opere
protette, indicizzando ed elencando su tale piattaforma i file torrent che
consentono agli utenti della medesima di localizzare tali opere e di
condividerle nell’ambito di una rete tra utenti (peer-to-peer).
A tale
riguardo, come sostanzialmente indicato dall’avvocato generale al paragrafo 50
delle conclusioni, senza la messa a disposizione e la gestione da parte dei
suddetti amministratori di una siffatta piattaforma, le opere in questione non
potrebbero essere condivise dagli utenti o, quantomeno, la loro condivisione su
Internet sarebbe più complessa.
37 Occorre
pertanto considerare che, con la messa a disposizione e la gestione della
piattaforma di condivisione online TPB, gli amministratori di quest’ultima
offrono ai loro utenti un accesso alle opere di cui trattasi. Si può quindi
ritenere che essi svolgano un ruolo imprescindibile nella messa a disposizione
delle opere in questione.
38 Non
si può infine ritenere che gli amministratori della piattaforma di condivisione
online TPB realizzino una «mera fornitura» di attrezzature fisiche atte a
rendere possibile o ad effettuare una comunicazione, ai sensi del considerando
27 della direttiva 2001/29. Risulta infatti dalla decisione di rinvio che tale
piattaforma provvede a indicizzare i file torrent, di modo che le opere a cui
tali file torrent rinviano possono essere facilmente localizzate e scaricate
dagli utenti della suddetta piattaforma di condivisione. Inoltre, dalle
osservazioni presentate alla Corte emerge che la piattaforma di condivisione
online TPB propone, in aggiunta a un motore di ricerca, un indice che
classifica le opere in diverse categorie, a seconda della natura delle opere,
del loro genere o della loro popolarità, e che gli amministratori di tale
piattaforma verificano che un’opera sia inserita nella categoria adatta.
Inoltre detti amministratori provvedono ad eliminare i file torrent obsoleti o
errati e filtrano in maniera attiva determinati contenuti.
39 Alla
luce delle suesposte considerazioni, la fornitura e la gestione di una
piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento
principale, devono essere considerate un atto di comunicazione, ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.
40 In
secondo luogo, per rientrare nella nozione di «comunicazione al pubblico» ai
sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, è necessario
inoltre che le opere protette siano effettivamente comunicate ad un pubblico
(sentenza del 26 aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto
43 e giurisprudenza ivi citata).
41 A
tale riguardo, la Corte ha precisato, da un lato, che la nozione di «pubblico»
comporta una certa soglia de minimis, il che esclude da detta nozione una
comunità di interessati troppo esigua, se non addirittura insignificante.
Dall’altro, occorre tener conto degli effetti cumulativi che derivano dalla
messa a disposizione di opere protette presso destinatari potenziali.
Pertanto,
è opportuno non soltanto sapere quante persone abbiano accesso
contemporaneamente alla medesima opera, ma altresì quante tra di esse abbiano
accesso alla stessa in successione (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile
2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 44 e giurisprudenza ivi
citata).
42 Nella
fattispecie, dalla decisione di rinvio risulta che una parte rilevante degli
abbonati della Ziggo e della XS4ALL ha scaricato file multimediali mediante la
piattaforma di condivisione online TPB.
Dalle osservazioni presentate alla
Corte risulta anche che tale piattaforma sarebbe utilizzata da un numero
considerevole di persone, dal momento che gli amministratori della TPB hanno
indicato, sulla loro piattaforma di condivisione online, diverse decine di
milioni di «peers». A tale riguardo, la comunicazione di cui al procedimento
principale riguarda, quantomeno, l’insieme degli utenti della piattaforma in
questione.
Detti utenti possono accedere, in ogni momento e contemporaneamente,
alle opere protette condivise mediante la suddetta piattaforma. Pertanto, tale
comunicazione riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e
comprende un numero di persone considerevole (v., in tal senso, sentenza del 26
aprile 2017, Stichting Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300 punto 45 e giurisprudenza
ivi citata).
43 Ne
consegue che, mediante una comunicazione come quella di cui al procedimento
principale, alcune opere protette sono effettivamente comunicate a un
«pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.
44 Inoltre,
per quanto riguarda la questione se tali opere siano state comunicate a un
pubblico «nuovo» ai sensi della giurisprudenza citata al punto 28 della
presente sentenza, si deve rilevare che la Corte, nella sua sentenza del 13
febbraio 2014, Svensson e a. (C‑466/12, EU:C:2014:76, punti 24 e 31),
nonché nella sua ordinanza del 21 ottobre 2014, BestWater International (C‑348/13,
EU:C:2014:2315, punto 14), ha statuito che un siffatto pubblico è un pubblico
che non è stato preso in considerazione dai titolari del diritto d’autore al
momento in cui hanno autorizzato la comunicazione iniziale.
45 Nel
caso di specie, dalle osservazioni presentate alla Corte risulta, da un lato,
che gli amministratori della piattaforma di condivisione online TPB sono stati
informati del fatto che tale piattaforma, che essi mettono a disposizione degli
utenti e che gestiscono, dà accesso ad opere pubblicate senza l’autorizzazione
dei titolari di diritti e, dall’altro, che gli stessi amministratori
manifestano espressamente, sui blog e sui forum disponibili su detta
piattaforma, il loro obiettivo di mettere a disposizione degli utenti opere
protette, incitando questi ultimi a realizzare copie di tali opere.
In ogni
caso, dalla decisione di rinvio risulta che gli amministratori della
piattaforma di condivisione online TPB non potevano ignorare che tale
piattaforma dà accesso ad opere pubblicate senza l’autorizzazione dei titolari
di diritti, dato il fatto, espressamente sottolineato dal giudice del rinvio,
che gran parte dei file torrent che compaiono sulla piattaforma di condivisione
online TPB rinvia ad opere pubblicate senza l’autorizzazione dei titolari di
diritti. In simili condizioni, si deve ritenere che sussista comunicazione a un
«pubblico nuovo» (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2017, Stichting
Brein, C‑527/15, EU:C:2017:300, punto 50).
46 Peraltro
non si può contestare che la messa a disposizione e la gestione di una
piattaforma di condivisione online, come quella di cui al procedimento
principale, sono realizzate allo scopo di trarne profitto, dal momento che tale
piattaforma genera, come risulta dalle osservazioni presentate alla Corte,
considerevoli introiti pubblicitari.
47 Pertanto,
occorre ritenere che la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma
di condivisione online, come quella di cui al procedimento principale,
configurino una «comunicazione al pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo
1, della direttiva 2001/29.
48 Alla
luce dell’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla prima
questione dichiarando che la nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, deve essere interpretata
nel senso che comprende, in circostanze come quelle di cui al procedimento
principale, la messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una
piattaforma di condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi
ad opere protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti
di tale piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di
una rete tra utenti (peer-to-peer).
Sulla seconda questione
49 Alla
luce della risposta fornita alla prima questione, non è necessario rispondere
alla seconda questione.
Sulle spese
50 Nei
confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce
un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire
sulle spese.
Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni
alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Per questi
motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara:
La nozione di
«comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della
direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio
2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti
connessi nella società dell’informazione, deve essere interpretata nel senso
che comprende, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la
messa a disposizione e la gestione, su Internet, di una piattaforma di
condivisione che, mediante l’indicizzazione di metadati relativi ad opere
protette e la fornitura di un motore di ricerca, consente agli utenti di tale
piattaforma di localizzare tali opere e di condividerle nell’ambito di una rete
tra utenti (peer-to-peer).
domenica 3 settembre 2017
Phishing: E' Responsabile l’istituto di credito se non adotta adeguate misure di prevenzione e sicurezza
NICOLA CENTORRINO 14:27 Cassazione Civile, Cassazione Civile - Sezione I - Sentenza N. 2950/2017, NEWS INFORMATICHE, NUOVE TECNOLOGIE, PHISHING, PRIVACY, Sentenza N. 2950/2017 No comments
Cassazione Civile - Sezione I - Sentenza N. 2950/2017
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Per quanto ancora rileva, con sentenza depositata in data 8 marzo 2011 la Corte d' Appello di xxxxxx: a) ha rigettato l'appello principale proposto da xxx avverso la decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda intesa ad ottenere la condanna di xxxxxxxxxxxx a risarcire il danno derivante da due operazioni (una di giroconto e l'altra di bonifico), eseguite in assenza di sue disposizioni e di cessione a terzi dei codici personali di accesso al sistema che consentiva le operazioni on fine; b) ha dichiarato inammissibile l'appello incidentale tardivo proposto da xxxxxxxxx avverso il capo della sentenza di primo grado, che l'aveva condannata al pagamento delle spese nei confronti di xxxxxxxx, chiamato in giudizio, unitamente ad xxxxxxxxx, quale beneficiario delle operazioni, e ritualmente costituitosi.
2. La Corte territoriale ha ritenuto: a) che, a tacere dell'assenza di prova certa, quanto all'estraneità del xxxx rispetto al bonifico disposto in favore del xxxxx,
comunque, secondo l'accertamento del giudice di primo grado, le misure di sicurezza on fine di xxxxxxx, caratterizzate dall'utilizzo di un sistema di crittografia dei dati di riconoscimento del cliente, erano tali da escludere che l'accesso alle funzioni fosse consentito a chi non era conoscenza delle chiavi di accesso; c) che pertanto le operazioni in questione erano state rese possibili dalla mancata custodia o comunque da un incauto comportamento del correntista, tale da consentire la sottrazione dei codici mediante tecniche fraudolente; d) che l'appello incidentale non poteva essere proposto nel termine previsto dall'art. 334 cod. proc. pen., dal momento che l'impugnazione proposta da xxxxxxxx si correlava ad una domanda di garanzia impropria, autonoma, per soggetti e titolo, rispetto a quella formulata dall'attore in via principale.
3. Avverso tale sentenza, il xxxxxx propone ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resistono con controricorso xxxxxxx e il xxxxx; il xxxxxxx non ha svolto attività difensiva.
Nell'interesse del xxxxx e di xxxxxx sono state depositate memorie ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si lamentano violazione o falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., nonché vizi motivazionali, per avere la Corte territoriale omesso di applicare le regole in tema di ripartizione dell'onere probatorio.
Nel caso di specie, era stata rigettata la domanda con la quale l'attore aveva denunciato un inadempimento contrattuale della controparte, nonostante la mancanza di dimostrazione che le operazioni contestate fossero state eseguite attraverso i codici di accesso del ricorrente.
2. Con il secondo motivo si lamentano violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 2697, 1710, 1768, 1856, 2050 cod. civ., nonché vizi motivazionali, per avere la Corte territoriale ritenuto, in assenza di prova da parte di xxxxxx, l'idoneità del sistema di sicurezza adottato, nonostante l'attore avesse documentato le numerose frodi informatiche subite dai clienti di xxxxxxxxx.
3. I due motivi, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione logica, sono fondati.
È indiscusso che, nel nostro ordinamento, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l'adempimento deve provare la fonte (riegoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa. costituito dall'avvenuto adempimento (v., ad es., Cass. 20 gennaio 2015, n. 826) ovvero dell'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Tale generai principio ha trovato una sua specificazione, con riguardo all'utilizzazione di servizi e strumenti con funzione di pagamento, che si avvalgono di mezzi meccanici o elettronici, in quanto si è ritenuto che "non può essere omessa (...) la verifica dell'adozione da parte dell'istituto bancario delle misure idonee a garantire la sicurezza del servizio (. . .); infatti, la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell'accorto banchiere" (Cass. 12 giugno 2007, n. 13777; v.
anche Cass. 19 gennaio 2016, n. 806).
2
In tale cornice di riferimento, si osserva: a) per un verso, che la sentenza impugnata erroneamente attribuisce rilievo, per una delle due operazioni delle quali si discute, all'assenza di prova certa dell'estraneità del ricorrente, laddove era piuttosto necessario accertare in positivo la riconducibilità dell'operazione a quest'ultimo; b) per altro verso, che la possibilità della sottrazione dei codici del correntista, attraverso tecniche fraudolente, rientra nell'area del rischio di impresa, destinato ad essere fronteggiato attraverso l'adozione di misure che consentano di verificare, prima di dare corso all'operazione, se essa sia effettivamente attribuibile al cliente; c) che, pertanto, ai fini del rigetto della domanda risarcitoria, non era sufficiente dare rilievo al - peraltro presuntivamente affermato - incauto comportamento del xxxxxxx, che avrebbe consentito la sottrazione dei codici.
Va aggiunto che, sebbene alla vicenda non sia applicabile ratione temporis (le operazioni delle quali si discute risalgono infatti al settembre 2005) la direttiva 2007/64/CE del Parlamento europeo e del consiglio del 13 novembre 2007, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, cui è stata data attuazione con il d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 (v., in particolare, artt. 10 e ss.), il punto di equilibrio divisato da tale disciplina risulta essere sostanzialmente in linea con le regole generali relative alla ripartizione della prova in tema di inadempimento contrattuale e di verifica della diligenza dell'agente professionale.
Infatti, l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al soggetto obbligato (art. 1218 cod. civ.) richiede la dimostrazione di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente richiesto al debitore.
Ne discende che, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (ciò che rappresenta interesse degli stessi operatori), appare del tutto ragionevole ricondurre nell'area del rischio professionale del prestatore di servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici da parte di terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo.
4. In conclusione, il ricorso principale va accolto, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte d'appello di Trento in diversa composizione.
P.Q.M.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte d'appello di Trento in diversa composizione.
Così deciso in Roma, in data 4 ottobre 2016
FACEBOOK: LA SEMPLICE AMICIZIA ON LINE NON PUO' ESSERE CONSIDERATA INDICE DI "ABITUALE COMMENSALITA' " TRA 2 SOGGETTI
NICOLA CENTORRINO 06:58 NEWS INFORMATICHE, NUOVE TECNOLOGIE, SENTENZA N. 281/2017, SENTENZA TAR, TAR SARDEGNA No comments
TAR SARDEGNA - SEZIONE PRIMA - SENTENZA N. 281/2017
DIRITTO
Una sintesi delle censure dei ricorrenti è utile per inquadrare le questioni sottoposte al Collegio.
Con il primo motivo i ricorrenti affermano che le operazioni della Commissione sono viziate innanzi tutto per la presenza di cause di incompatibilità e/o inopportunità dati i rapporti tra i commissari e i singoli concorrenti.
I commissari XXXX e XXX sono docenti del medesimo XXX di XXX nel quale insegnano i candidati XXX, XX, XX, XX.
Come emerge dalle schede tratte dal sito dell’XXXX di XXXX, XXXXX e XXX fanno parte del Consiglio di classe della XX; XX e XXX del consiglio di classe della XXXX.
Affermano poi i ricorrenti che dalle fotografie pubblicate sul social network Facebook appare che tra il commissario XXXXX e i candidati XXXXX, XXXX e XXXX (che insegnano tutti la stessa materia presso l’XXXX di XXXX) vi sono rapporti non di semplice conoscenza ma di amicizia, frequentazione e confidenza.
All’uopo i ricorrenti depositano fotografie scaricate dal citato social network che avvalorerebbero la loro tesi.
Dalla graduatoria di merito approvata il XXX emerge che nella prova pratica, dove maggiore è la discrezionalità dei Commissari, proprio ai “candidati colleghi” XXX, XX e XXsono stati assegnati i punteggi più elevati.
A XXXX, che nella prova scritta aveva conseguito soltanto XXX punti, è stato assegnato il punteggio massimo sia nella prova pratica che nella prova orale.
Trattamento di favore sarebbe stato riservato anche alla quarta “candidata collega” XXXX (docente all’XXXX di XXXX) la quale non è stata esclusa dal concorso nonostante nella domanda di partecipazione non avesse indicato la lingua straniera (sulla quale avrebbe dovuto vertere parte della prova scritta).
Ulteriore elemento sintomatico sarebbe rappresentato dalla appartenenza del commissario XXXX e di alcuni dei menzionati candidati alla federazione italiana cuochi, sezione di XXXX in virtù della quale i medesimi avrebbero continui rapporti professionali anche al di fuori dell’ambito scolastico.
Con il secondo motivo i ricorrenti affermano che il bando disponeva che la prova scritta dovesse svolgersi interamente al computer e prevedeva:
a) 6 quesiti a risposta aperta; b) 2 quesiti, ciascuno dei quali articolato in 5 domande a risposta chiusa, volti a verificare la comprensione di un testo in lingua straniera prescelta dal candidato (tra inglese, francese, tedesco e spagnolo).
La durata della prova era pari a 150 minuti.
La prova scritta si è svolta il XXXXX presso il laboratorio informatico dell’I.S. XXXXXX.
Prima dell’inizio della prova, secondo l’esposizione dei ricorrenti, alla specifica domanda se il sistema salvasse tutto ciò che i candidati scrivevano, i tecnici rispondevano che tutto ciò che veniva scritto sarebbe stato salvato in automatico e che non esisteva pericolo di cancellazione delle risposte.
La sig.ra XXXX dopo aver scritto per oltre 15 minuti la risposta al primo quesito ha premuto il tasto per andare a capo e tutto ciò che aveva scritto è risultato cancellato.
Avvertito il tecnico d’aula, a dire della ricorrente egli non ha saputo spiegare l’accaduto quindi la candidata ha dovuto ricominciare la risposta.
Inoltre, sempre a dire dei ricorrenti, durante lo svolgimento della prova scritta comparivano all’improvviso finestre con tasti sconosciuti.
Sempre secondo l’esposizione della ricorrente XXXX (i fatti riportati sono a lei riferiti), dopo aver terminato di scrivere la sesta risposta e, mancando ancora 18 minuti al termine, premeva il tasto “prosegui e conferma” per salvare la risposta in modo automatico; controllava quindi le risposte a ritroso e si accorgeva, arrivata alla sesta, che essa era sparita.
Segnalato anche questo malfunzionamento, la ricorrente riferisce che il tecnico d’aula non era in grado di trovare la risposta al problema e suggeriva di riscriverla ma a quel punto mancava il tempo.
Quanto al Sig. XXXX, egli asserisce che dopo aver elaborato tutte le risposte ai sei quesiti si è visto sparire la risposta al sesto.
Dell’accaduto si dà atto anche nell’ultima pagina del verbale della prova scritta XXXXXX con la conferma dei due responsabili tecnici presenti in aula.
Secondo i ricorrenti sarebbero quindi stati violati:
a) i principi di trasparenza, correttezza e buona amministrazione;
b) la prescrizione stabilita dalla nota 9705 del 12 aprile 2016 che imponeva alle commissioni di fornire le istruzioni necessarie per l’utilizzo delle postazioni informatiche; nella specie nessuna avvertenza era stata data che premendo i tasti indietro o a capo sarebbe stata cancellata la risposta già scritta;
c) la par condicio tra i candidati tenuto conto che la Commissione avrebbe dovuto, a fronte delle segnalazioni di avvenuta cancellazione di risposte regolarmente scritte, concedere un ulteriore spazio temporale oltre i 150 minuti per completare lo scritto; ciò al fine di non sfavorire i soggetti che avevano subito il malfunzionamento del computer;
d) il principio dell’anonimato perché i membri della Commissione sapevano che gli unici due candidati i cui compiti non riportavano la risposta alla sesta domanda erano XXXX e XXXX.
Altro motivo di illegittimità, secondo i ricorrenti, è rappresentato dal fatto che le griglie di valutazione della prova scritta sono state approvate dalla Commissione il XXXX e il XXXX e quindi successivamente all’espletamento della prova che si è tenuta il XXXXX.
Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti affermano che la commissione avrebbe violato l’art. 6 dell’allegato A del D.M. 23 febbraio 2016 n. 95. La commissione avrebbe dovuto preparare una serie di prove tra i 4 temi indicati nell’allegato A.
Il tema oggetto della prova avrebbe poi dovuto essere estratto a sorte per ciascun concorrente o gruppo di concorrenti.
La Commissione ha violato le citate disposizioni perché per tre giorni consecutivi (7, 8 e 9 giugno) e dunque per gruppi distinti di candidati è stato estratto singolarmente il medesimo tema che è esattamente uguale ad uno dei 4 titoli previsti dall’allegato A: “realizzazione di un piatto vegetariano utilizzando prodotti tipicamente mediterranei.
Senza l’utilizzo di alghe o prodotti similari.
Nel contempo il piatto deve contenere, proteine, lipidi, carboidrati ed eventuali elementi ausiliari tesi ad ascoltarne il gusto”. Secondo i ricorrenti questo è segno che la commissione non aveva preparato alcuna serie di prove all’interno dei titoli di cui all’allegato A.
La scuola poi non ha fornito, secondo i ricorrenti, adeguate attrezzature per lo svolgimento della prova pratica e i ricorrenti hanno dovuto, con altri candidati, richiedere il prestito di attrezzatura di base e coltelleria della scuola alberghiera di Arzachena con autorizzazione del dirigente scolastico.
Nel verbale XXXX si dà atto che “i candidati vengono invitati a munirsi della divisa, a portarsi la minuteria personale di cucina e qualche piccola attrezzatura”.
Secondo i ricorrenti è stato violato l’allegato A del d.m. 95/2016 il quale prescriveva che “la prova dovrà essere svolta in base ai dati e alle materie prime forniti dalla Commissione, utilizzando le attrezzature di cui si dispone in laboratorio”.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Il primo motivo è infondato alla luce di pacifica giurisprudenza anche di questa Sezione.
La sussistenza di una situazione di incompatibilità tale da imporre l’obbligo di astensione deve essere valutata ex ante, in relazione agli effetti potenzialmente distorsivi che il sospetto difetto di imparzialità è idoneo a determinare in relazione alla situazione specifica, ma anche con estrema cautela in relazione alla sua portata soggettiva, onde evitare che la sussistenza dell’obbligo di astensione possa essere estesa a casi e fattispecie in alcun modo contemplate dalla normativa di riferimento (Consiglio di Stato, sez. VI, 19 marzo 2015, n. 1411).
Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica (Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3956, T.a.r. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 28 dicembre 2016, n. 986).
L’incompatibilità tra esaminatore e concorrente implica quindi o l’esistenza di una comunanza di interessi economici o di vita tra i due soggetti [di intensità tale da far ingenerare il sospetto che il candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della procedura, ma in virtù della conoscenza personale con l’esaminatore (Cons. Stato, sez. VI, 4 marzo 2015, n. 1057) ed idonea a far insorgere un sospetto consistente di violazione dei principi di imparzialità, di trasparenza e di parità di trattamento (comunque inquadrabile nell’art. 51, comma 2, del c.p.c.)], ovvero la sussistenza di un potenziale conflitto di interessi per l’esistenza di una causa pendente tra le parti, o la sussistenza di grave inimicizia tra di esse.
Poiché l’impossibilità del ricorso alla analogia è giustificata dall’esigenza di tutela di certezza dell’azione amministrativa e della stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici, è stato ritenuto dalla giurisprudenza che neppure la presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del commissario di concorso costituisce causa di legittima ricusazione, perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente o di grave inimicizia (Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2014 n. 1577).
Questi principi sono stati affermati recentemente dalla Sezione con sentenza n. 986 del 28 dicembre 2016.
Occorre effettuare ulteriori precisazioni, data la particolarità del caso.
Anche sui rapporti di “colleganza” (qui oggetto di specifica contestazione) la giurisprudenza si è pronunciata ripetutamente.
E’ stato per esempio affermato che “i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati ammessi alla prova orale non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non potendo le cause di incompatibilità previste dall'art. 51 (tra le quali non rientra l'appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza) essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale; pertanto, la conoscenza che alcuno dei membri di una commissione di concorso abbia di un candidato, ove non ricada nelle suddette fattispecie tipiche, non implica di per sé la violazione delle regole dell'imparzialità e nemmeno il sospetto della violazione di tali regole” (Consiglio di Stato, sez. III, 28/04/2016, n. 1628 e , in senso conforme, Consiglio di Stato, sez. III, 20/01/2016, n. 192, Consiglio di Stato, sez. VI, 23/09/2014, n. 4789).
Veniamo all’ultimo singolare profilo contestato dai ricorrenti e cioè “l’amicizia sul social network Facebook”.
Anche questa contestazione, in assenza di ulteriori e solide prove, non può essere positivamente apprezzata dal Collegio.
Come è noto, Facebook implica una possibile diffusione del materiale pubblicato sul profilo dell'utente a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti se l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni che peraltro il social network consente.
Le cosiddette “amicizie” su Facebooksono del tutto irrilevanti poiché lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute.
Né si può pretendere che gli utenti (escluso un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano controllare ogni possibile controindicazione del social network posto che esso, per come si è evoluto, costituisce ormai una modalità di comunicazione difficilmente classificabile (ognuno ne fa l’utilizzo che ritiene più appropriato ma per lo più si tratta di attività ludica e ricreativa).
Insomma, non è certo Facebook in sé che può concretizzare una delle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c.. La questione è talmente pacifica che non necessita di particolare approfondimento.
In ordine alle foto “scaricate” dal social network la questione non muta.
Esse non valgono a provare alcuna “commensalità abituale” prevista dall’art. 51 c.p.c..
E qui il Collegio deve effettuare ancora alcune precisazioni.
Torniamo al “nocciolo della questione”.
Come già riferito, secondo la tradizionale interpretazione giurisprudenziale dell’art. 51 c.p.c., i casi di astensione obbligatoria sono tassativi e non suscettibili di interpretazione né analogica, né estensiva.
Essi sfuggono ad ogni tentativo di manipolazione analogica, vista l'esigenza di assicurare la certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici.
Soprattutto in dottrina è stato ampiamento dibattuto il significato da attribuire alla locuzione convivente o commensale abituale.
Per la maggior parte della dottrina, l'espressione deve intendersi in senso lato, vale a dire quale soggetto appartenente ad una cerchia di persone che hanno una certa affectio familiaritatis, ossia che vivono in famigliarità e hanno interessi comuni.
Altri autori ritengono invece che si debbano assumere le espressioni convivenza e commensalità nel loro significato letterale.
Quel che è certo è che tale motivo di astensione è ravvisabile quando vi è prova che il membro della commissione abbia con il candidato frequenza di contatti e di rapporti di tale continuità da far dubitare della sua imparzialità e serenità di giudizio.
Il riferimento alla “abitualità” della commensalità esclude per l’appunto, per pura e semplice logica, l’occasionalità della stessa.
E della abitualità occorre dare prova.
Prova che non può essere certo fornita mediante Facebook.
Non è chi non veda che nell’odierno modo di comunicare, qualunque occasione conviviale anche del tutto episodica, può essere “catturata” con il telefono cellulare e repentinamente pubblicata sul social network.
Non può, questo, essere considerato indice di una commensalità abituale.
L’art. 51 c.p.c. se correttamente interpretato, non può condurre a tale illogico risultato.
Il ragionamento quindi va concluso tenuto conto che per le stesse caratteristiche del social network Facebook, sopra ampiamente descritte, né le argomentazioni dei ricorrenti né le produzioni dei medesimi (fotografie tratte dal social network) possono essere positivamente apprezzate dal Collegio perché non provano nulla circa la commensalità abituale tra membri della commissione e candidati.
Stesso discorso vale per il contestato “campionato della cucina italiana” per il quale valgono le considerazioni finora espresse e su cui non occorre indugiare ulteriormente.
Anche il secondo motivo è infondato.
Di tutte le presunte anomalie e malfunzionamenti dei personal computer descritte dai ricorrenti non esiste la benché minima prova.
Così come nessuna conferma dei malfunzionamenti è stata data dai responsabili tecnici al contrario di quello che affermano i ricorrenti.
Nel verbale menzionato (documento 27 produzioni dei ricorrenti) non si legge alcuna conferma.
Si legge invece “i responsabili tecnici XXXX e XXXXX in relazione a quanto sopra esposto dichiarano quanto segue: chiamati alla postazione dai candidati in parola abbiamo verificato che il campo era vuoto”.
Il che non significa affatto che i responsabili tecnici hanno confermato qualcosa in ordine al malfunzionamento del sistema informatico ma significa solo che “il campo era vuoto”.
E il campo poteva essere vuoto perché i candidati non l’avevano compilato o perché (come è verosimile) possono avere errato al momento di salvare la risposta (non seguendo le istruzioni che erano state date dall’amministrazione nel video di tutoraggio al minuto 4,30).
La presenza del video di tutoraggio è affermata dall’amministrazione (documento 11 produzioni della stessa) e non contestata in modo sostanziale dai ricorrenti.
In ordine al momento della fissazione dei criteri di valutazione è sufficiente richiamare pacifica e costante giurisprudenza che afferma che la previsione di cui all'art. 12, d.P.R. n. 487 del 1994 della fissazione dei criteri di valutazione nella prima riunione pone l'accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.
E' stata, pertanto, ritenuta legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo l'effettuazione di queste, purchè prima della loro concreta valutazione, cioè dell'effettiva correzione e valutazione delle prove scritte; nel caso di specie, è stato ritenuto che correttamente si siano fissati i criteri per la valutazione dei titoli dopo lo svolgimento della prova scritta, ma prima della relativa correzione (da ultimo, T.a.r. Lazio, Roma, sez. I, 10 gennaio 2017, n. 368 e, in senso conforme, Consiglio di Stato, sez. V, 04 gennaio 2011, n. 8).
Del tutto infondata è la questione posta dai ricorrenti in ordine alla violazione della regola dell’anonimato.
Regola che, semmai hanno deciso loro stessi di violare nel richiedere la verbalizzazione di quello che, in mancanza di prova contraria, doveva essere considerato un loro errore, regola che non può essere considerata violata dal momento che, comunque, al momento della correzione i commissari non potevano essere in alcun modo a conoscenza del fatto che gli unici a non aver risposto alla domanda n. 6 erano i candidati XXXX e XXXXX che, lo si ribadisce, hanno autonomamente deciso di far verbalizzare delle dichiarazioni sfornite di qualsiasi supporto probatorio.
Non spetta miglior sorte al terzo motivo di ricorso.
I temi scelti dalla commissione sono ricavati dal D.M. 95/2016.
Le prove sono state regolarmente svolte e, come risulta dal verbale n. 5 del 7 giugno 2016 (documento 28 dei ricorrenti) semplicemente vi è un invito ai candidati a munirsi della divisa e a portarsi la minuteria personale di cucina e qualche piccola attrezzatura.
Niente che possa averli danneggiati ma semmai favoriti (tutti allo stesso modo).
La censura è del tutto inconsistente.
Il ricorso deve, in definitiva, essere respinto siccome infondato.
La assoluta particolarità della vicenda portata all’attenzione del Collegio e la novità di alcune questioni prospettate induce a ritenere sussistenti le ragioni per disporre la compensazione delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2017
sabato 2 settembre 2017
Cyber-Stalking: perseguibile chi entra continuamente nel profilo Facebook della propria ex
NICOLA CENTORRINO 01:55 Cyber-Stalking, NEWS INFORMATICHE, NUOVE TECNOLOGIE, SENTENZA STALKING, Stalking No comments
CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE
QUINTA PENALE
Sentenza
13 febbraio - 24 maggio 2017, n. 25940
Svolgimento del
processo
1. Con sentenza del 17/05/2016 la Corte di
Appello di Brescia, in riforma della sentenza di assoluzione emessa dal
Tribunale di Cremona il 05/12/2014, condannava M.I. per il reato di cui
all'art. 612 bis c.p., per aver, con condotte reiterate di minacce, ingiurie e
messaggi, molestato l'ex convivente B.F., costringendola a cambiare le utenze
telefoniche e cagionandole un perdurante e grave stato di ansia.
2. Avverso tale provvedimento ricorre per
cassazione M.I., deducendo i seguenti motivi.
2.1. Vizio di motivazione in relazione alla
sussistenza dell'evento del reato e del nesso di causalità con le condotte
moleste dell'imputato.
2.2. Vizio di motivazione in relazione al vizio
logico-giuridico della sentenza di assoluzione di primo grado.
2.3. Violazione di legge in ordine alla
liquidazione della provvisionale in favore della parte civile, senza alcuna
motivazione o riferimento a criteri oggettivi.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi due motivi, che meritano una
valutazione congiunta, sono manifestamente infondati.
La sentenza di primo grado, pur avendo
ricostruito i fatti accertando che l'imputato, in seguito alla
"rottura" del legame sentimentale con la persona offesa, aveva posto
in essere condotte reiterate di minaccia, ingiuria e molestia, aveva ritenuto
che non sussistesse la prova del nesso causale tra tali condotte persecutorie e
il perdurante e grave stato di ansia e di paura pure riscontrato nella vittima.
La Corte territoriale, riformando la decisione
di primo grado, ha evidenziato al riguardo due vizi della sentenza di
assoluzione: da un lato, pur avendo accertato che, in seguito alle intrusioni
nella vita privata della donna, anche mediante accessi indebiti nell'account di
posta elettronica, e nel profilo Facebook, la persona offesa era stata
costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, cambiando le utenze
telefoniche, gli indirizzi mail, e, addirittura, l'abitazione, ha poi ignorato
tali elementi, senza confrontarsi con le risultanze probatorie; anche in ordine
all'altro evento del reato, il grave e perdurante stato di ansia e di paura per
la propria incolumità personale, integrato dal grave disturbo post-traumatico
da stress diagnosticato dalla psicoterapeuta della vittima, e dal cambiamento
della propria residenza, la sentenza impugnata ha ritenuto erronea la
valutazione del giudice di primo grado, perchè aveva trascurato di considerare
l'oggettiva gravità dei comportamenti perpetrati per mesi, con modalità
assillanti e ossessive, che avevano coinvolto anche amiche e familiari della
vittima, e la capacità destabilizzante di tali condotte.
Tanto premesso, giova rammentare che nel delitto
previsto dall'art. 612 bis c.p., che ha natura abituale, l'evento deve essere
il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione
degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale
della fattispecie, facendo assumere a tali atti un'autonoma ed unitaria
offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella
vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di
prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte
dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016, G, Rv. 269081);
peraltro, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori è
sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti
dall'art. 612 bis c.p. (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A, Rv. 265231).
Con riferimento alla prova del nesso causale tra
le condotte persecutorie e gli eventi, la sentenza di assoluzione aveva
richiamato correttamente i principi affermati dalla giurisprudenza di questa
Corte: in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto in
riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato
di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale
turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del
reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere
dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta
idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle
effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n.
14391 del 28/02/2012, S., Rv. 252314); in tema di atti persecutori, la prova
del nesso causale tra la condotta minatoria o molesta e l'insorgenza degli
eventi di danno alternativamente contemplati dall'art. 612 bis c.p. (perdurante
e grave stato di ansia o di paura; fondato timore per l'incolumità propria o di
un prossimo congiunto; alterazione delle abitudini di vita), non può limitarsi
alla dimostrazione dell'esistenza dell'evento, nè collocarsi sul piano
dell'astratta idoneità della condotta a cagionare l'evento, ma deve essere
concreta e specifica, dovendosi tener conto della condotta posta in essere
dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest'ultima nelle abitudini
e negli stili di vita (Sez. 3, n. 46179 del 23/10/2013, Bernardi, Rv. 257632).
Tuttavia, come correttamente evidenziato dalla
Corte territoriale, il richiamo ai principi in tema di prova del nesso causale
si è rivelato, nella motivazione della sentenza di assoluzione, avulso dagli
elementi probatori, che, viceversa, fondavano sia una valutazione di astratta
idoneità ad ingenerare paura (per le minacce profferite, e per i controlli a
distanza operati anche mediante abusivi accessi informatici), sia una
valutazione di concreta incidenza sul mutamento delle abitudini di vita,
essendo stato accertato che la vittima, proprio in conseguenza degli accessi
abusivi, era stata costretta a cambiare utenze telefoniche, indirizzi mail, e
profilo Facebook, oltre all'abitazione.
In tal senso, viceversa, si è pronunciata, con
apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità o di contraddittorietà,
la sentenza impugnata, che, senza trascurare immotivatamente gli elementi
probatori emersi e pacificamente accertati, ha affermato che lo stato di
perdurante ansia e paura (attestato dalla diagnosi di disturbo post-traumatico
da stress e dal trasferimento presso la madre) e l'alterazione delle abitudini
di vita (mediante cambiamento dell'abitazione, delle utenze telefoniche, della
mail e del profilo Facebook) fossero invece stati determinati proprio dalle
condotte persecutorie dell'imputato, consistite in minacce, molestie continue
ed ossessive, intrusioni nell'account di posta elettronica e nel profilo
Facebook.
Oltre a motivare espressamente al riguardo,
elidendo qualsivoglia doglianza di omessa motivazione, la Corte territoriale ha
infatti affermato la sussistenza del nesso causale tra le condotte persecutorie
e gli eventi accertati proprio sulla base delle modalità concrete delle prime e
dei peculiari effetti determinati.
3. Il terzo motivo, concernente le statuizioni
civilistiche e la condanna al pagamento della provvisionale, è inammissibile,
poichè non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata
in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una
provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente
delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.
G., Rv. 263486); il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel
pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte
civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile
per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato
e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale
risarcimento (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Patricola, Rv. 261054).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del
ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la
corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende,
somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l'art. 616
c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza
che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve
essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 c.p.p.,
comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli
altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in
quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017.