sabato 2 settembre 2017

Cyber-Stalking: perseguibile chi entra continuamente nel profilo Facebook della propria ex

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Sentenza 13 febbraio - 24 maggio 2017, n. 25940



Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 17/05/2016 la Corte di Appello di Brescia, in riforma della sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Cremona il 05/12/2014, condannava M.I. per il reato di cui all'art. 612 bis c.p., per aver, con condotte reiterate di minacce, ingiurie e messaggi, molestato l'ex convivente B.F., costringendola a cambiare le utenze telefoniche e cagionandole un perdurante e grave stato di ansia.

2. Avverso tale provvedimento ricorre per cassazione M.I., deducendo i seguenti motivi.

2.1. Vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'evento del reato e del nesso di causalità con le condotte moleste dell'imputato.

2.2. Vizio di motivazione in relazione al vizio logico-giuridico della sentenza di assoluzione di primo grado.

2.3. Violazione di legge in ordine alla liquidazione della provvisionale in favore della parte civile, senza alcuna motivazione o riferimento a criteri oggettivi.


Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

2. I primi due motivi, che meritano una valutazione congiunta, sono manifestamente infondati.

La sentenza di primo grado, pur avendo ricostruito i fatti accertando che l'imputato, in seguito alla "rottura" del legame sentimentale con la persona offesa, aveva posto in essere condotte reiterate di minaccia, ingiuria e molestia, aveva ritenuto che non sussistesse la prova del nesso causale tra tali condotte persecutorie e il perdurante e grave stato di ansia e di paura pure riscontrato nella vittima.

La Corte territoriale, riformando la decisione di primo grado, ha evidenziato al riguardo due vizi della sentenza di assoluzione: da un lato, pur avendo accertato che, in seguito alle intrusioni nella vita privata della donna, anche mediante accessi indebiti nell'account di posta elettronica, e nel profilo Facebook, la persona offesa era stata costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, cambiando le utenze telefoniche, gli indirizzi mail, e, addirittura, l'abitazione, ha poi ignorato tali elementi, senza confrontarsi con le risultanze probatorie; anche in ordine all'altro evento del reato, il grave e perdurante stato di ansia e di paura per la propria incolumità personale, integrato dal grave disturbo post-traumatico da stress diagnosticato dalla psicoterapeuta della vittima, e dal cambiamento della propria residenza, la sentenza impugnata ha ritenuto erronea la valutazione del giudice di primo grado, perchè aveva trascurato di considerare l'oggettiva gravità dei comportamenti perpetrati per mesi, con modalità assillanti e ossessive, che avevano coinvolto anche amiche e familiari della vittima, e la capacità destabilizzante di tali condotte.

Tanto premesso, giova rammentare che nel delitto previsto dall'art. 612 bis c.p., che ha natura abituale, l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un'autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016, G, Rv. 269081); peraltro, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori è sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti dall'art. 612 bis c.p. (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A, Rv. 265231).

Con riferimento alla prova del nesso causale tra le condotte persecutorie e gli eventi, la sentenza di assoluzione aveva richiamato correttamente i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte: in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 14391 del 28/02/2012, S., Rv. 252314); in tema di atti persecutori, la prova del nesso causale tra la condotta minatoria o molesta e l'insorgenza degli eventi di danno alternativamente contemplati dall'art. 612 bis c.p. (perdurante e grave stato di ansia o di paura; fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto; alterazione delle abitudini di vita), non può limitarsi alla dimostrazione dell'esistenza dell'evento, nè collocarsi sul piano dell'astratta idoneità della condotta a cagionare l'evento, ma deve essere concreta e specifica, dovendosi tener conto della condotta posta in essere dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest'ultima nelle abitudini e negli stili di vita (Sez. 3, n. 46179 del 23/10/2013, Bernardi, Rv. 257632).

Tuttavia, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, il richiamo ai principi in tema di prova del nesso causale si è rivelato, nella motivazione della sentenza di assoluzione, avulso dagli elementi probatori, che, viceversa, fondavano sia una valutazione di astratta idoneità ad ingenerare paura (per le minacce profferite, e per i controlli a distanza operati anche mediante abusivi accessi informatici), sia una valutazione di concreta incidenza sul mutamento delle abitudini di vita, essendo stato accertato che la vittima, proprio in conseguenza degli accessi abusivi, era stata costretta a cambiare utenze telefoniche, indirizzi mail, e profilo Facebook, oltre all'abitazione.

In tal senso, viceversa, si è pronunciata, con apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità o di contraddittorietà, la sentenza impugnata, che, senza trascurare immotivatamente gli elementi probatori emersi e pacificamente accertati, ha affermato che lo stato di perdurante ansia e paura (attestato dalla diagnosi di disturbo post-traumatico da stress e dal trasferimento presso la madre) e l'alterazione delle abitudini di vita (mediante cambiamento dell'abitazione, delle utenze telefoniche, della mail e del profilo Facebook) fossero invece stati determinati proprio dalle condotte persecutorie dell'imputato, consistite in minacce, molestie continue ed ossessive, intrusioni nell'account di posta elettronica e nel profilo Facebook.

Oltre a motivare espressamente al riguardo, elidendo qualsivoglia doglianza di omessa motivazione, la Corte territoriale ha infatti affermato la sussistenza del nesso causale tra le condotte persecutorie e gli eventi accertati proprio sulla base delle modalità concrete delle prime e dei peculiari effetti determinati.

3. Il terzo motivo, concernente le statuizioni civilistiche e la condanna al pagamento della provvisionale, è inammissibile, poichè non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486); il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Patricola, Rv. 261054).

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l'art. 616 c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 c.p.p., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 c.p.p..


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2017.


Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017.


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