CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE
QUINTA PENALE
Sentenza
13 febbraio - 24 maggio 2017, n. 25940
Svolgimento del
processo
1. Con sentenza del 17/05/2016 la Corte di
Appello di Brescia, in riforma della sentenza di assoluzione emessa dal
Tribunale di Cremona il 05/12/2014, condannava M.I. per il reato di cui
all'art. 612 bis c.p., per aver, con condotte reiterate di minacce, ingiurie e
messaggi, molestato l'ex convivente B.F., costringendola a cambiare le utenze
telefoniche e cagionandole un perdurante e grave stato di ansia.
2. Avverso tale provvedimento ricorre per
cassazione M.I., deducendo i seguenti motivi.
2.1. Vizio di motivazione in relazione alla
sussistenza dell'evento del reato e del nesso di causalità con le condotte
moleste dell'imputato.
2.2. Vizio di motivazione in relazione al vizio
logico-giuridico della sentenza di assoluzione di primo grado.
2.3. Violazione di legge in ordine alla
liquidazione della provvisionale in favore della parte civile, senza alcuna
motivazione o riferimento a criteri oggettivi.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I primi due motivi, che meritano una
valutazione congiunta, sono manifestamente infondati.
La sentenza di primo grado, pur avendo
ricostruito i fatti accertando che l'imputato, in seguito alla
"rottura" del legame sentimentale con la persona offesa, aveva posto
in essere condotte reiterate di minaccia, ingiuria e molestia, aveva ritenuto
che non sussistesse la prova del nesso causale tra tali condotte persecutorie e
il perdurante e grave stato di ansia e di paura pure riscontrato nella vittima.
La Corte territoriale, riformando la decisione
di primo grado, ha evidenziato al riguardo due vizi della sentenza di
assoluzione: da un lato, pur avendo accertato che, in seguito alle intrusioni
nella vita privata della donna, anche mediante accessi indebiti nell'account di
posta elettronica, e nel profilo Facebook, la persona offesa era stata
costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, cambiando le utenze
telefoniche, gli indirizzi mail, e, addirittura, l'abitazione, ha poi ignorato
tali elementi, senza confrontarsi con le risultanze probatorie; anche in ordine
all'altro evento del reato, il grave e perdurante stato di ansia e di paura per
la propria incolumità personale, integrato dal grave disturbo post-traumatico
da stress diagnosticato dalla psicoterapeuta della vittima, e dal cambiamento
della propria residenza, la sentenza impugnata ha ritenuto erronea la
valutazione del giudice di primo grado, perchè aveva trascurato di considerare
l'oggettiva gravità dei comportamenti perpetrati per mesi, con modalità
assillanti e ossessive, che avevano coinvolto anche amiche e familiari della
vittima, e la capacità destabilizzante di tali condotte.
Tanto premesso, giova rammentare che nel delitto
previsto dall'art. 612 bis c.p., che ha natura abituale, l'evento deve essere
il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione
degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale
della fattispecie, facendo assumere a tali atti un'autonoma ed unitaria
offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella
vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di
prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte
dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016, G, Rv. 269081);
peraltro, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori è
sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti
dall'art. 612 bis c.p. (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A, Rv. 265231).
Con riferimento alla prova del nesso causale tra
le condotte persecutorie e gli eventi, la sentenza di assoluzione aveva
richiamato correttamente i principi affermati dalla giurisprudenza di questa
Corte: in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto in
riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato
di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale
turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del
reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere
dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta
idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle
effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n.
14391 del 28/02/2012, S., Rv. 252314); in tema di atti persecutori, la prova
del nesso causale tra la condotta minatoria o molesta e l'insorgenza degli
eventi di danno alternativamente contemplati dall'art. 612 bis c.p. (perdurante
e grave stato di ansia o di paura; fondato timore per l'incolumità propria o di
un prossimo congiunto; alterazione delle abitudini di vita), non può limitarsi
alla dimostrazione dell'esistenza dell'evento, nè collocarsi sul piano
dell'astratta idoneità della condotta a cagionare l'evento, ma deve essere
concreta e specifica, dovendosi tener conto della condotta posta in essere
dalla vittima e dei mutamenti che sono derivati a quest'ultima nelle abitudini
e negli stili di vita (Sez. 3, n. 46179 del 23/10/2013, Bernardi, Rv. 257632).
Tuttavia, come correttamente evidenziato dalla
Corte territoriale, il richiamo ai principi in tema di prova del nesso causale
si è rivelato, nella motivazione della sentenza di assoluzione, avulso dagli
elementi probatori, che, viceversa, fondavano sia una valutazione di astratta
idoneità ad ingenerare paura (per le minacce profferite, e per i controlli a
distanza operati anche mediante abusivi accessi informatici), sia una
valutazione di concreta incidenza sul mutamento delle abitudini di vita,
essendo stato accertato che la vittima, proprio in conseguenza degli accessi
abusivi, era stata costretta a cambiare utenze telefoniche, indirizzi mail, e
profilo Facebook, oltre all'abitazione.
In tal senso, viceversa, si è pronunciata, con
apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità o di contraddittorietà,
la sentenza impugnata, che, senza trascurare immotivatamente gli elementi
probatori emersi e pacificamente accertati, ha affermato che lo stato di
perdurante ansia e paura (attestato dalla diagnosi di disturbo post-traumatico
da stress e dal trasferimento presso la madre) e l'alterazione delle abitudini
di vita (mediante cambiamento dell'abitazione, delle utenze telefoniche, della
mail e del profilo Facebook) fossero invece stati determinati proprio dalle
condotte persecutorie dell'imputato, consistite in minacce, molestie continue
ed ossessive, intrusioni nell'account di posta elettronica e nel profilo
Facebook.
Oltre a motivare espressamente al riguardo,
elidendo qualsivoglia doglianza di omessa motivazione, la Corte territoriale ha
infatti affermato la sussistenza del nesso causale tra le condotte persecutorie
e gli eventi accertati proprio sulla base delle modalità concrete delle prime e
dei peculiari effetti determinati.
3. Il terzo motivo, concernente le statuizioni
civilistiche e la condanna al pagamento della provvisionale, è inammissibile,
poichè non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata
in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una
provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente
delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.
G., Rv. 263486); il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel
pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte
civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile
per cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato
e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale
risarcimento (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Patricola, Rv. 261054).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del
ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la
corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende,
somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00: infatti, l'art. 616
c.p.p. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza
che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve
essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 c.p.p.,
comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della cassa delle
ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli
altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in
quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 13 febbraio 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2017.
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